Prendo ancora a prestito le parole di Orlando per aggiungere qualche riflessione (dopo le foto) …

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(08/05/2017 – anno 14 – numero 419In tanti si sono interessati dei motivi per i quali i kenyani emergono nelle corse di resistenza, trovando spesso elementi particolari sotto vari aspetti, spesso reali e tangibili, altre volte solo in forma di aneddoti e che non hanno quindi un’attinenza rilevante nel giustificare il netto predominio dei corridori della Rift Valley. Uno studio recentissimo, fatto da un’equipe di psicologi inglesi, ha voluto sondare anche la loro capacità mentale e verificare se ci potesse essere qualche aspetto particolare che evidenziasse la loro grande capacità di rendimento.

In effetti un aspetto molto particolare è stato rilevato: i kenyani corrono forte perché non hanno preoccupazioni e pensieri, da non intendere alla maniera occidentale. Anche i kenyani hanno la preoccupazione di “sbarcare il lunario” guadagnandosi soldi per comperare la casa, mandare a studiare i figli, comperarsi il televisore, il frigo, il cellulare eccetera. Ma queste sono preoccupazioni che non riguardano la prestazione: i kenyani non hanno pensieri e preoccupazioni quando corrono e gareggiano.

La loro abilità è di correre con la mente libera, come viene spontaneo fare da sempre e che noi occidentali invece non sappiamo gestire. La loro capacità di correre senza pensieri deriva dal fatto di impostare l’impegno fisico solo ed essenzialmente sulle sensazioni che il corpo evidenzia sotto sforzo. In sostanza, i corridori kenyani non usano i numeri, che per noi occidentali sono un artificio per tenere impegnata la mente, o meglio la corteccia cerebrale, una parte del cervello appunto che si attiva (lavora) per dare un’importanza alla prestazione a seconda delle motivazioni del soggetto.

Per un kenyano non suscita alcuna reazione percorrere una certa distanza in un certo tempo, perché queste informazioni non sono correlate nella loro mente. Per un kenyano ha rilevanza lo sforzo specifico nel sostenere un determinato impegno in relazione al percorso. Per il corridore kenyano i sensi sono molto attivi e lo sforzo che sostiene è collegato ad esperienze già vissute direttamente.

Nei kenyani il trascorrere del tempo non è un elemento che determina tensione ed ansia, tanto che per loro, ad esempio, fissare un appuntamento non è inteso come ritrovarsi ad un orario specifico, ma è incontrarsi in un contesto molto variabile. Un loro “appuntamento” può essere tollerato anche con una variazione di un paio ore e non è inteso come una mancanza di rispetto l’arrivare “tardi”.

Il contesto nel quale i kenyani si allenano favorisce da sempre la corsa “spensierata”, non intesa solo perché si allenano in natura, ma perché non c’è modo di rilevare distanze appropriate (di base lo fanno gli allenatori che li seguono in macchina) e perché il terreno è praticamente sempre sconnesso e a volte anche fangoso. E’ vero che si allenano anche in pista, ma più per creare una “disciplina” dello sforzo, vale a dire per evitare di correre con cambi di ritmo che nelle prove di resistenza sono deleterie, mentre fanno parte del loro modo di correre perché correlato a percorsi molto vari.

Secondo l’equipe di fisiologi, correre senza pensieri favorisce il rendimento perché non viene discriminato il ritmo in veloce o lento, ma semplicemente perché lo sforzo è giusto per quel momento e quella competizione. Un kenyano affermerà di aver sempre corso bene, di aver sostenuto lo sforzo adeguato, e di essere andato (comunque) forte, semplicemente perché meglio non avrebbe potuto fare. Un giudizio sul proprio rendimento non viene fatto sul responso cronometrico ma piuttosto sul confronto con gli avversari.

Secondo l’equipe di psicologi, correre con la mente vuota (senza pensieri) toglie sia l’ansia da prestazione tipica del pre gara che hanno molti atleti, sia i condizionamenti negativi, e riduce il senso di fatica. Per quest’ultimo aspetto i soggetti studiati non erano in grado di indicare quanto a lungo fosse durato lo sforzo di una competizione. Secondo i ricercatori, tale atteggiamento rivelerebbe che la mancanza di pensieri/preoccupazioni inibirebbe l’area del cervello nel quale vengono associate le sensazioni negative correlate allo sforzo e alla fatica.

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Quanto si sono divertiti psicologi e fisiologi inglesi? Cosa ci raccontano e quanto funzionano (per noi) queste esperienze di successo? 30anni fa i kenyani eravamo noi e Orlando fu protagonista: cosa/come recuperare da allora? La nostra evoluzione sociale inibisce la qualificazione fisiologica: i nostri figli possono salvarsi.

A Camilla mancano ancora riferimenti numerici su terra, come a me mancano quelli in acqua, ma le ho già anticipato che può arrivare a podio nei prossimi giochi studenteschi: basta un po’ di lavoro eccentrico sugli arti inferiori e un po’ di abitudine a correre in gruppo. Avrà voglia di provarci?

A Tommaso basta un po’ di compagnia e qualche riferimento geografico per non perdersi nella fatica, che si dimentica comunque dopo l’arrivo. Come Camilla alla sua età, quando mi accompagnava pochi passi nell’improbabile ricostruzione …

Durante le vacanze estive al campeggio Lido, io e il papà ogni mattina e quasi ogni sera andavamo a correre verso il Capalonga e in là. Trovavo sempre bellissime conchiglie di forme diverse e vedevo tanti pesci che fuggivano dalla riva e tanti granchi

Dov’è la fatica? Quella che Tommaso scioglie subito nel sonno che Camilla ora prova a forzare se deve studiare alla sera. Meglio dormire, svegliando il kenyano dentro di noi.

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