Non abbiamo dubbi: uno dei modi migliori per capire il senso più profondo dello sport è trascorrere un po’ di tempo sul palco di una manifestazione popolare come la Milano Marathon e riempirsi gli occhi con l’arrivo dei maratoneti. Ma il cuore si appaga non soltanto con i campioni e gli inarrivabili faticatori della maratona amatoriale, ma anche grazie a quell’universo di sicuro più modesto degli staffettisti: un popolo prevalentemente di non tesserati che, con meraviglia, scopre di riuscire a correre fra i 7 e i 13 chilometri di seguito. Sarà un caso, ma ieri i volti più insaziabilmente felici e gli arrivi più festosi in mezzo agli oltre ventimila partecipanti alla domenica podistica milanese sono stati proprio quelli della Europ Assistance Relay Marathon. E la staffetta sui 42,195 km a questi livelli in Italia (e forse anche in Europa) si corre soltanto a Milano.

Questo l’incipit del Direttore: 1’000 battute che poi raddoppiano, con qualche numero oltre le distanze, per sommarne oltre 20’000 = 6’309 maratoneti + 4 x 3’513 staffettisti … tanti, comunque a metà dell’opera. Più donne, più staffette, più charity! Comunque contenti dei risultati raggiunti, promozione rosa compresa.

Per chi non lo sapesse, funziona così: ci si organizza nelle aziende o fra amici per comporre una staffetta di 4 persone in grado di completare insieme una maratona (quella è riservata ai professionisti delle tapasciate), si assegnano le distanze (sempre differenziate) in base alla preparazione, si crea di solito un gruppo su Whatsapp e poi nella domenica designata si parte subito dopo i maratoneti veri. Il valore consegnato alla causa di portare nuovi adepti alla corsa è altissimo, l’aspetto etico è che si corre con motivazioni non solo sportive, perché l’unica forma di iscrizione è attraverso le Charity e la Generali Milano Marathon ha raccolto più di un milione di euro di beneficenza, collocandosi al secondo posto in Europa tra i Charity Events dopo Londra. Ma la cosa più bella succede alla fine: a un centinaio di metri dal traguardo, nelle postazioni assegnate in base al numero di pettorale, ci sono gli altri tre compagni di squadra che aspettano l’ultimo frazionista e spesso si arriva tutti insieme di fianco agli eroi solitari della maratona vera. Così da una parte ci sono le facce della fatica e di fianco quelle della felicità.

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Lascio fuori il finale con altri numeri consapevoli che non ce la faremo mai: aggiorniamo la sfida 2015 e 2017  quando Roma contava ben più di 10k arrivati. Nel 2019 siamo a 8’862 che sommati a Milano fanno meno di un terzo di Parigi cresciuta a 48’029 arrivati e pronta a insidiare New York come Londra o Berlino se mai lo volessero.

Una delle grandi ingiustizie che ci offrono le moderne vie della comunicazione globale è che non riusciremo mai a far entrare un nome come quello di Eliud Kipchoge, così intrinsecamente keniano e così distante dai flussi tecnologici, fra i miti popolari dello sport mondiale. Non vedremo mai un ragazzino piegato sui banchi di una scuola del mondo civilizzato dire “vorrei diventare come Eliud Kipchoge” così come farebbe con Messi o con Ronaldo. E in Italia, come in quasi tutto il resto del mondo, non vedremo neanche digitare il nome di Eliud Kipchoge ai nostri figli mentre sono intenti a citare ai propri coetanei i propri punti di riferimento. Nonostante tutto si ha l’impressione che colui che sta materialmente spostando in avanti i limiti della resistenza umana non sia ancora conosciuto come merita.

Vi lascio l’intero articolo, solo cartaceo, no online come 3 settimane fa. E altri numeri, assenti nel primo capoverso, per valutare dove andare a parare. In faccia ai social resta la famiglia e quel minimo di educazione che riesce a passare, anche di corsa.

Sei il mio piccolo Eliud o sei il mio piccolo Gauss? Sussurro a Tommaso prima che entri nel sonno o quando ne ritorna. E lui può esserli entrambi a modo suo, un po’ come papà ingegnere, un po’ come zio matematico (qui tutta la famiglia laureata).

Intanto gli crescono le idee, continua a giocare il calcio, vorrebbe le emozioni forti degli stadi e dei circuiti, forse svilupperà il gusto più sottile di quelle personali che valgono per sé e per molti che gli vogliono bene. Così spero anche Camilla.

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