Non so quanti sono arrivati in fondo alle 4000 battute di Orlando nell’ultima newsletter anche solo per focalizzare il ‘paradosso del lattato‘ (copio-incollo) …

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Se pensi che a farti rallentare in gara, a rendere molto impegnativi gli allenamenti intervallati, e a indurirti i muscoli il giorno dopo uno sforzo, sia l’acido lattico, le tue conoscenze in fisiologia sono indietro di 100 anni circa (ma consolati perché ci sono ancora tanti massaggiatori che la pensano così!). Nel 1920 il medico inglese A.V. Hill (Premio Nobel in fisiologia) aveva pensato, infatti, che i muscoli potevano produrre energia anche dopo aver raggiunto il valore del massimo consumo di ossigeno e grazie al meccanismo anaerobico, ma con la conseguenza sfavorevole dell’accumulo di acido lattico. Questo elemento, secondo Hill, causava fatica e quindi l’impossibilità di mantenere a lungo una specifica velocità di corsa. Il mito dell’acido lattico è durato oltre 60 anni, quando si è visto che questo elemento prodotto sotto sforzo veniva completamente degradato in lattato e ioni idrogeno.

Molte ricerche di fisiologia si sono quindi concentrate successivamente sullo studio del lattato, perché si era notato che quanto maggiore era l’intensità dello sforzo, tanto più alta era la concentrazione di lattato nei muscoli e nel sangue. Questa teoria è tuttora in auge (sebbene già una decina di anni fa alcuni fisiologi, tra i quali Noakes e Pérronet, avevano avanzato dei dubbi) perché si considera il lattato un prodotto del meccanismo anaerobico.

Ma negli ultimi mesi un gruppo di ricercatori dell’Università del Massachusset, utilizzando apparecchiature all’avanguardia, ha misurato la pressione dell’ossigeno nelle fibre muscolari scheletriche durante test incrementali, ed ha rilevato che essa si manteneva costante, dalle andature blande fino allo sforzo massimo. Ciò indica che i muscoli non lavorano mai in carenza di ossigeno, e quindi che non c’è mai una situazione di anaerobiosi.

Ma come mai il lattato cresce nei muscoli e nel sangue a livelli molto elevati? I ricercatori dell’Università del Massachusset hanno desunto che il lattato prodotto sotto sforzo non ha alcuna correlazione con il meccanismo anaerobico, e per confermare le loro deduzioni hanno iniettato del lattato negli atleti sotto sforzo. Come immaginavano, il rendimento di questi corridori non ne ha risentito.

La conclusione è stata ovvia: siccome i muscoli non si trovano mai in situazioni anaerobiche, la produzione del lattato dipende solo dal consumo di glicogeno dei muscoli. Ciò spiega anche il cosiddetto “paradosso del lattato”: in teoria nei muscoli di un corridore che si allena in quota, in seguito alla minore pressione dell’ossigeno, si dovrebbe accumulare più lattato perché si attiva prima il meccanismo anaerobico (carenza di ossigeno). Ed invece, nel sangue e nei muscoli degli atleti che corrono in quota, si è riscontrato che il lattato è presente in quantità inferiori rispetto a quando essi corrono in pianura alla stessa velocità.

Inoltre, i ricercatori dell’Università del Massachusset hanno spiegato anche il cosiddetto “lactate shuttle”: si è sempre pensato che le fibre muscolari non coinvolte nello sforzo non fossero in grado di passare le proprie risorse energetiche ai muscoli che le avessero esaurite. Lo studio dei ricercatori ha invece verificato che la presenza di lattato nei muscoli favorisce proprio questo passaggio di energie, consentendo di mantenere più a lungo un determinato regime di lavoro muscolare.

A questo punto, sondato che il meccanismo anaerobico non esiste, uno degli elementi che agiscono ad aumentare la fatica dell’atleta quando corre ad alta intensità (in relazione al proprio potenziale) è l’acidità del sangue, causata dall’accumulo di ioni idrogeno (anche se pure questo aspetto è messo in dubbio dai ricercatori dell’Università del Massachusset, che per ora non si sbilanciano su altre cause).

Tutto ciò concorre ad indicare che gli sforzi svolti a migliorare le proprie prestazioni non devono limitarsi, come si è fatto per decenni, al cuore e al meccanismo anaerobico, ma devono essere rivolti altrove, e più precisamente ai muscoli e alla loro correlazione con il sistema nervoso centrale. La teoria di Péronnet sull’inesistenza della soglia anaerobica mi ha portato a tante riflessioni che sto applicando, e sono certo che passerò altri momenti di riflessione per trovare un legame specifico, sul piano fisiologico, tra i due elementi.

Anch’io me la sono presa più volte col lattato, tanto per farmi capire, parlando alla fine di acidosi e stimolo nervoso più ballerini nelle misure (fra esponenziali e logaritmi) e nelle valutazioni (fra tamponamento e sopportazione). Sempre alla ricerca di quello che funziona per ciascuno di noi, come Orlando recita in un commento …

Io uso ancora il test Conconi, o meglio il test della VAM per impostare le andature di allenamento, i valori delle corrispondenti FC e strutturare la preparazione di un podista. Di base il test della VAM rileva l’efficienza aerobica di un podista, ed è questo l’aspetto più importante del test, ma faccio anche riferimento alla “deflessione della FC” come punto di riferimento dell’utilizzo energetico del solo glicogeno da parte dei muscoli, e come segnale dell’acidificazione ematica che determina specifiche reazioni del SNC a condizionamento delle prestazioni di resistenza.

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